Vittore Carpaccio (Venezia 1460-65 – ivi o Capodistria 1525-26)



Scuola grande di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia

Orazione nell'Orto (1502 circa)
Olio su tela, 141x107 cm
Vocazione di San Matteo (1502)
Olio su tela, 141x115 cm

Non sappiamo a cosa sia dovuta la scelta dei soggetti di questi due dipinti che presentano entrambi un medesimo stemma nobiliare, rispetto alle altre sette tele del ciclo decorativo della Scuola che fanno riferimento ai tre santi titolari della confraternita, Giorgio, Trifone e Girolamo. Forse i santi presenti in entrambi gli episodi, cioè Pietro e Giovanni, e il protagonista del secondo Matteo, erano quelli eponimi di alcuni dei funzionari più importanti della confraternita a quel tempo. L'Orazione è sfortunatamente in non buone condizioni conservative, tuttavia è ancora ampiamente apprezzabile per diversi suoi aspetti. Nonostante si possano rintracciare debiti più o meno evidenti da Giovanni Bellini e Andrea Mantegna, se non addirittura dal Giotto della Cappella degli Scrovegni, l'esito è del tutto originale. La suggestiva ambientazione notturna fa risaltare nella parte alta la veste scarlatta di Cristo rivolto di profilo verso il bagliore di luce divina nel mezzo di un incavo di rocce aguzze. Un brano pittorico che per la sua carica espressiva in bilico tra fiaba e dramma, sembra ricordare certa figurazione nordica. Più sotto gli apostoli addormentati con il bello scorcio della figura di San Pietro dal rilucente mantello dorato, di cui Tiziano sembra ricordarsene nella posizione delle gambe della donna ferita dal marito geloso negli affreschi della Scuola del Santo a Padova. Sulla destra, appena visibili in lontananza, il corteo di sommi sacerdoti e soldati che da Gerusalemme vengono a catturare Cristo. In migliori condizioni è l'altra tela, firmata e datata 1502, nella quale Matteo, preso per mano da Cristo, è raffigurato nelle vesti di un ricco mercante ebreo. Tra le varie figure si possono osservare anche due ritratti di profilo, mentre sullo sfondo compare una delle tante città dell'entroterra così come allora dovevano apparire.

San Girolamo e il leone nel monastero
Olio su tela, 141x211 cm
Funerali di San Girolamo (1502)
Olio su tela, 141x211 cm
Sant'Agostino nello studio
Olio su tela, 141x210 cm

Nel primo dei tre episodi dedicati al santo di origine istriana, si fa riferimento all'episodio forse più celebre legato alla sua vita, così come ci è stata tramandata da alcune fonti scritte fra le quali quella più nota è la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Si narra che Girolamo, dopo essersi ritirato in un convento di Betlemme, avesse guarito un leone togliendogli una spina dalla zampa e che l'animale gli si fosse affezionato a tal punto da restare con lui fino alla morte. Nel rappresentare l'ingresso del leone ferito nel convento Carpaccio da prova non solamente della sua ben nota abilità narrativa, ma anche di una vivace ironia. L'ormai anziano Girolamo è mostrato nell'atto di giustificare ai confratelli la presenza del temibile animale, il quale come un cagnolino ubbidiente mostra la zampa dove vi è conficcata la spina. Tutto inutile! I frati scappano terrorizzati agitando le ampie vesti che sottolineano la dinamicità del movimento. L'interno dell'ampio convento è popolato da diverse specie di animali mentre le palme sulla sinistra gli conferiscono un tocco orientaleggiante. Nella raffigurazione dei funerali del santo l'artista sembra quasi collocare i personaggi in primo piano in una sorta di proscenio teatrale. La bella vista del monastero sullo sfondo, con a destra il leone accovacciato che ruggisce quasi a piangere l'amico fraterno, appare come una sorta di scenografia. Questo ambiguo carattere della scena risulta sottolineato dal cartiglio che compare in basso al centro, nel quale egli, accanto alla sua firma, utilizza il termine "Fingebat" invece del consueto "Pingebat". Viene sottolineato così il carattere di finzione della realtà proprio della pittura, l'esaltazione dell'arte come artificio. L'acuta caratterizzazione naturalistica delle due figure sull'estrema sinistra lascia supporre di essere di fronte a dei ritratti, forse di eminenti funzionari della Scuola. Nel terzo episodio si raffigura un accadimento narrato nell'agiografia Hieronymus: Vita et Transitus stampata a Venezia nel 1485 in cui si racconta di come Sant'Agostino, intento a scrivere una lettera a Girolamo per chiedergli un parere riguardo la beatitudine celeste, viene raggiunto da una luce soprannaturale con la voce di Girolamo che gli annuncia la sua avvenuta morte e l'ascesa presso Cristo. Carpaccio con straordinario acume descrittivo e utilizzando con grande rigore la luce proveniente dalle finestre della stanza, ci offre la preziosa e dettagliata testimonianza visiva dello studio di un erudito dei suoi tempi. Oltre ai libri che non si possono contare, si osservano oggetti tra i più diversi che vanno dagli strumenti astronomici, come la sfera armillare in alto a destra, alle curiosità naturalistiche, come la conchiglia marina appoggiata sulla scrivania alla destra di Agostino, ai reperti del mondo classico come la piccola stata bronzea sulla mensola più bassa a sinistra. Il dipinto rappresenta una delle più affascinanti immagini di un interno che l'arte del Rinascimento ci abbia mai lasciato.

Duello di San Giorgio con il drago (1504-1507 circa)
Olio su tela, 141x360 cm
San Giorgio uccide il drago (1504-1507 circa)
Olio su tela, 141x360 cm
Battesimo dei Saleniti (1507 circa)
Olio su tela, 141x285 cm
Esorcismo di San Trifone (1507 circa)
Olio su tela, 141x300 cm

Nel primo dei tre episodi dedicati alla vita di San Giorgio, viene raffigurato il momento decisivo dello scontro tra il santo cavaliere e il terribile drago. Giorgio, nativo della Cappadocia, era venuto in soccorso alla figlia di Aia re di Selene, estratta a sorte per essere sacrificata al vorace drago al quale ogni giorno gli abitanti di quella zona dovevano concedere un sacrificio umano. Come la critica ha osservato, l'immagine che si sviluppa di profilo sembra richiamare con nostalgia un passato cavalleresco ormai tramontato. Il dipinto, che non risparmia particolari macabri tra i quali i resti mutilati delle precedenti vittime, presenta non di meno una particolare eleganza nella figura del santo a cavallo. La dimensione del racconto insita nella pittura di Carpaccio, trova qui una dimensione che gli è particolarmente congeniale nella quale alla visione esotica si accompagna la vicenda avventurosa, alla consueta profusione di elementi descrittivi, l'istantaneità dell'azione. Il tutto in una visione quasi sospesa tra sogno e realtà. Nella scena con l'uccisione del drago si osserva una composizione corale orchestrata con grande abilità compositiva. Il fulcro della scena, che vede Giorgio uccidere il drago dopo averlo trascinato in città usando per guinzaglio la cintura della principessa salvata, è sottolineato in secondo piano dall'edificio a pianta centrale. Ai lati la folla di personaggi che assiste alla scena è caratterizzata da variegati costumi che contribuiscono a creare, assieme agli edifici immigrati dall'artista, una fantasiosa rappresentazione dell'oriente. Per le architetture Carpaccio sembra ispirarsi a un volume a stampa del tempo, il Peregrinationes in Terram Sanctam di Bernhard von Breydembach illustrato da Erhard Reuwich. Sulla sinistra il corteo reale avanza con re e regina a cavallo e la principessa a piedi presa per mano dal padre. Poco dietro una fanfara accompagna con musica trionfale la vittoria di Giorgio. Nell'ultimo episodio riguardante San Giorgio, vediamo il protagonista del ciclo mentre battezza i Seleniti dopo averli salvati dalla terribile minaccia. Gli edifici appaiono meno orientaleggianti e più in sintonia con la contemporanea architettura veneziana. In primo piano ai piedi della gradinata un pappagallo è verosimilmente allusivo al battesimo, secondo quanto già visto nel dipinto di Giovanni Bellini in Santa Corona a Vicenza. Qui la qualità pittorica sembra meno elevata rispetto ai due precedenti episodi, e anche sul piano compositivo Carpaccio tende a riutilizzare con alcune varianti soluzioni già adottate in opere precedenti. Sulla sinistra troviamo nuovamente la banda musicale, mentre più in basso la parte inferiore del podio presenta una vistosa integrazione successiva. Di qualità piuttosto scadente è infine l'ultimo telero del ciclo dedicato al co-patrono della Scuola, il poco conosciuto San Trifone, protettore della città di Cattaro nell'odierno Montenegro, vissuto nel terzo secolo e martirizzato forse nel 250 durante le persecuzioni contro i cristiani dell'imperatore romano Decio Traiano. La scena tratta da un racconto che si trova in un codice del 1466 conservato alla biblioteca Marciana, fa riferimento ad un esorcismo compiuto dal santo fanciullo, il quale fa uscire dalla bocca della figlia dell'allora imperatore romano Giordano la presenza demoniaca. Tale presenza, che assume la forma di un basilisco, viene interrogata dal santo sulla sua natura demoniaca tra la meraviglia dei presenti, provocandone poi la loro successiva conversione. L'ideazione non appare particolarmente originale essendo chiaramente ispirata all'episodio del ciclo di Sant'Orsola da lui dipinto (Gallerie dell'Accademia, Venezia) in cui è raffigurato il Ritorno degli ambasciatori e anche l'architettura, meno fantasiosa, riprende un po' stancamente modelli veneziani. È probabile che questo minor impegno dell'artista sia da mettere in rapporto con il prestigioso incarico da lui ottenuto nel 1507 per la decorazione del perduto ciclo di Palazzo Ducale, al quale da tempo lavorava Giovanni Bellini e a cui avevano preso parte anche Gentile Bellini, morto in quell'anno, Alvise Vivarini e Pietro Perugino. Egli dovette quindi riservare la maggior parte delle sue energie al nuovo e più importante incarico per il quale nel corso di quell'anno realizzava i due teleri che gli erano stati affidati. Per il dipinto in questione, invece, l'artista fece probabilmente ampio uso dei collaboratori a cui venne affidata quasi del tutto la stesura pittorica, ulteriormente penalizzata da parziali ridipinture successive.

Madonna degli Schiavoni
Olio su tela, 138x71 cm

Il dipinto, dal 1840 nell'altare della stessa sala dove si trova il ciclo in precedenza esaminato, apparteneva probabilmente alla Scuola fin dall'inizio. L'opera venne modificata nelle sue dimensioni originali per adattarla a una cornice seicentesca e non si presenta in buono stato di conservazione. Anche per quest'ultimo motivo la tela è stata a lungo declassata a opera di bottega o attribuita al figlio dell'artista, Benedetto Carpaccio. Lo schema compositivo si rifà a Giovanni Bellini e nel fregio alla base del trono i putti ricordano quelli già dipinti da Vittore nell'Apoteosi di Sant'Orsola appartenente al ciclo narrativo sulla santa (Venezia, Gallerie dell'Accademia).



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